Adriana di Paola (c) Bjoern Hickmann
La Stabat Mater è una sequenza-preghiera – cattolica del XIII secolo attribuita a Jacopone da Todi.
Prima della riforma liturgica, veniva spesso recitata il venerdì santo , ora la si può ascoltare durante la messa della Madonna Addolorata (celebrata a Settembre).
Diversi musicisti l’hanno trasposta in musica: Josquin des Prés, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Roland de Lassus nel Medioevo e rinascimento; Alessandro Scarlatti, Antonio Caldara, Antonio Vivaldi, Emanuele d’Astorga, Domenico Scarlatti, Giovanni Battista Pergolesi, Tommaso Traetta, Agostino Steffani nel Barocco; Gioachino Rossini, Franz Schubert, Franz Liszt, Josef Rheinberger, Antonín Dvořák, Giuseppe Verdi, Andrea De Giorgi nel Romanticisimo per poi arrivare alle interpetazioni di : Lorenzo Perosi, Karol Szymanowski, Francis Poulenc, Krzysztof Penderecki, Arvo Pärt, François Fayt, Salvador Brotons, Toivo Kuula, Zoltán Kodály, Bruno Coulais, Karl Jenkins, Julien Joubert, Marco Frisina, Marco Rosano, Angelo Comisso, Maurizio Filippo Maiorana, Stefano Lentini nel XX e XXI secolo.
Per la messa in scena presso lo Staatstheater di Saarbruecken, il poliedrico Gaetano Franzese ha selezionato la versione di Pergolesi, avvolgendola con due composizioni per archi scritte negli ultimi 50 anni: Hay que caminar- soñando (1989) di Luigi Nono e Natura Renovatur di Giancinto Scelsi.
“Hay que caminar” soñando, composizione per due violini (interpretati da Sebastian Gottschick e Wolfgang Mertes) venne messa in scena per la prima volta al Conservatorio G. verdi di Milano il 14 Ottobre del 1989.
Si racconta che a Toledo Nono lesse sul muro di un chiostro del 1300: «Caminantes no hay que caminar». O voi che camminate, non vi sono strade, c’è da camminare; non esistono percorsi segnati, strade certe e sicure, c’è la ricerca incessante, quella di Wanderer o di Prometeo. Ed infatti i due violinisti iniziano il loro percorso musicale camminando: rincorrendosi, sfidandosi, corteggiandosi, manifestando la complessità e la difficoltà del percorso da trovare.
A tal proposito la scenografia di Sabine Mader (che ha curato anche i costumi) sottolineava il percorso: rampe, a volte sinuose e a volte ripide, che dominavano la scena e confluivano nel pubblico erano il chiaro segnale di cosa si prospettava nella serata: l’impossibilità di definire con chiarezza i sentimenti e la necessità intrinseca dell’essere umano di muoversi: il movimento è vita.
Dopo i 10 minuti di nono, Gottschick ha preso in mano la direzione musicale e lasciato la scienza alle due protagoniste musicali della Stabat Mater: Tereza Andrazi (soprano) e Adriana di Paola (mezzosoprano).
Lo spettatore è stato messo immediatamente a confronto con la doppia unica/diversità del personaggio “materno”: due madri, non una. Due aspetti della stessa persona, forse aspetti antitetici o la trasformazione della persona in seguito al dolore?
Visivamente Sabine Mader, ha vestito le due protagoniste antiteticamente in rosso e nero e, è proprio il caso di dirlo, dalla punta ai piedi: dai capelli alle scarpe, dai vestiti allo smalto, il rosso e il nero si alternavano con attenzione maniacale. In scena anche loro, come i due violinisti prima, si rincorrono, cooperano, soffrono e vivono insieme l’esperienza dolorosa: la perdita del figlio che hanno fatto nascere. Il dolore però è difficile da superare, difficile da affrontare se si è soli, distaccati dal mondo. Ricordi lontani dell’uomo che fu, dei momenti vissuti insieme, di quel senso di comunità che non c’è più, viene presentato allo spettatore attraverso la proiezione del video sui teli fluttuanti. L’uomo (interpretato dal ballerino Francesco Vecchione) è un personaggio presente/assente, nella miglior tradizione di Peter Brooke: il personaggio principale della storia (senza la sua esistenza non ci sarebbe una “madre”) è presente/assente nello spirito e nei ricordi e influenza la vita delle madri.
Tuttavia, la pesantezza del dolore appare alleviata, resa meno pressante e quasi rappresentata come attimo della quotidianità, necessariamente presente nella vita che scorre (l’acqua in scena lo ricorda). Non importa quali gesta si compiano, come si voglia vivere il dolore e quanta importanza gli si voglia attribuire nella propria vita: solo la solitudine ha il potere di rendere il dolore davvero fatale.
L’idea della comunità e della necessità di aggregazione nella vita, viene evidenziata nel pezzo finale di scelsi. Un orchestra, quando accorda gli strumenti, ha uno strano effetto su chi ascolta: sembra quasi che ogni suono sia singolo, atto a se stesso e unico, non in armonia con l’altro… ma è proprio attraverso l’evidenziazione della dissonanza, dell’unicità che si arriva all’armonia.
La Stabat Mater non è un messaggio di dolore, bensì di speranza: di speranza nell’umanità e nella forza dell’uomo di superare le avversità, ma insieme e non come cavalieri solitari.
Elisa Cutullè