Intervista a Peppe Voltarelli

Chi è Peppe Voltarelli?

Uno studente calabrese fuori sede che a un certo punto si è trasferito a Bologna. Lì ho incominciato a suonare musica folk “contaminata” con chitarre elettriche con amici, poi diventati “nemici”.

 

Nel 1991 dai vita assieme a Franco Catalano, Salvatore de Siena, Massimo Cacciacarne e Amerigo Sirianni  a“Il Parto delle nuvole pesanti” che diventa celebre per la sua musica rock folk sperimentale. In quindici anni  di lavoro con il gruppo registri sette album, ma nel 2006 decidi di lasciare il gruppo per dedicarti alla carriera da solista . In quale formazione musicale ti senti più “Peppe”?

Con loro ho fondato questa specie di “Tarantella punk” che ci fece entrare nella rinascita del sound popolare assieme a diversi gruppi di artisti che segnarono quel periodo come Modena City Ramblers, Maomao, Almamegretta etc. Quando decido di lasciare la band, proseguo con il mio progetto di cantare in “lingua meridionale” e di raccontare questa grande diaspora degli italiani all’estero attraverso una serie di viaggi e di esperienze, non solo musicali ma anche cinematografiche. Viaggi che mi permettono di fare questo lavoro, questo studio sulle mie origini, sulla mia storia

 

Quanto incide il dialetto sulla tua musica, sulla tua vita?

Il dialetto lo abbiamo parlato sin da piccoli in casa, a scuola e ci accompagna tutt’ora nonostante i diplomi e tutte le evoluzioni del curriculum scolastico. Il dialetto è una sorta di attaccamento alla terra: ti tiene saldo alla terra e ti filtrare tutto attraverso delle consonanti, dei piccoli accenti, dei pregiudizi. Perché ogni popolo che ha il suo dialetto ha i suoi pregi, le sue eccellenze, ma anche le lacune e i pregiudizi.

Il dialetto, per me, è importante, perché mi mantiene viva la speranza che un legame passionale con una terra non possa finire nonostante la distanza, le cose brutte che succedono e la crescita, l’evoluzione della storia e delle persone. Io ho la fortuna di poter ancora scrivere in dialetto e noto che per molti il dialetto è un punto di riferimento per tutti quelli che credono ancora nella rinascita di una terra.

 

Parliamo dei premi che hai ricevuto. Nel 2008 al Teatro Civico di Alghero ricevi il Premio Pino Piras “Canco de Raganal” per l’ironia e il sarcasmo della sua ricerca musicale. Nel 2009 a San Salvatore Telesino (Benevento) ricevi il Premio Anselmo Mattei.  Nel 2010 il Premio Tenco per il miglior album in dialetto. Riconoscimenti importanti. Ci racconti qualcosa?

E’ stata la prima volta che un disco in dialetto calabrese ha vinto il Premio Tenco: per me è davvero una grande gioia. Mi dà la possibilità di affermare che il dialetto è ancora vivo e che ha grandi motivi per continuare a esserlo.

 

Doichlanda (2003): Il viaggio musicale di una band etno-rock nei ristoranti calabresi in Germania. Cosa era esattamente questo progetto?

E’ stata l’occasione per raccontare le mie impressioni della realtà della vita in Germania: A distanza di anni fa un certo effetto vedermi così giovane. Grazie a questo film ho avuto la possibilità di girare in diverse parti del mondo non solo seguendo le proiezioni ma anche raccontando proprio come nasce questa esperienza. Personalmente è stato un lavoro doppio perché ho lavorato sia come musicista che come attore: un  modo per raccontare con note e parole quale era la realtà del calabrese in Germania. Per me è stato molto divertente: ci sono delle esperienze diverse di vita, non è un film filologico sull’emigrazione, non un documentario che racconta la storia degli emigrati in Germania, bensì uno spaccato, a tratti  malinconico, ma soprattutto ironico e sorridente di diverse persone, di diverse realtà: dal signore di 70 anni che è arrivato in Germania in taxi al giovane rapper di Cariati. Una cosa che mi ha colpito che tutti i protagonisti, parlando dei tedeschi, continuano a chiamarli “loro”: secondo me è questo il segnale di un’integrazione non esistente, pensata ma non attuata. Il film si conclude con il brano “Onda Calabra” cantato da tutti i protagonisti.

 

Onda calabra… Qualunquemente?

Quest’anno il pezzo è stato utilizzato da Antonio Albanese per questo film. C’è stato, in merito una piccola querelle. Non ha funzionato, secondo me, il rifacimento del brano e la riscrittura del testo… è diventata una parodia dalla canzone stessa. Ho avuto il bisogno di rivendicare le parole originali della canzone e soprattutto la storia. La canzone era, nella sua concezione un simbolo dell’emigrazione caratterizzata da una sottile ironia, che, nel corso degli anni, è diventato il simbolo di una nuova calabresità: sorridente e amara, ma, soprattutto, speranzosa. I canti del meridione, soprattutto quelli popolari, sono contraddistinti dal lamento; nella mia canzone invece il dialetto diventa un urlo, un valore, una cosa manipolata verso altre direzioni di significato. Secondo me, questo valore spetta alla canzone, per cui ho reclamato la restituzione simbolica dello stesso. Non voglio che la Calabria rimanga “frenata” da stereotipi, visto che, specialmente in questi ultimi anni, il Sud ha prodotto grandi e interessanti novità in campo artistico in generale.

 

Un altro tuo aspetto di artista è quello di attore di teatro un mondo diverso, ma complementare.

Il teatro è una grande passione che è iniziato con “Roccu u stortu”, uno spettacolo della compagnia Krypton  dei fratelli Cauteruccio con cui ancora collaboro. L’anno scorso abbiamo portato in scena “Medea e la luna”. Il teatro mi piace molto: attraverso di esso ho capito tante cose, anche della musica, dell’interpretazione del canto che mi ha aiutato ad approfondire alcuni aspetti artistici.

 

L’aspetto di artista a tutto tondo si completa con il tuo lato di scrittore. Nel 2009 è stato pubblicato “Non finito calabrese”. Perché non finito?

Il “non finito calabrese” è uno stile architettonico molto famoso ed apprezzato in Calabria. É contraddistinto dal costruire palazzi di 3-5 piani, di lasciarli incompleti e di vivere spesso olo all’ultimo piano. Il palazzo risulta sempre in costruzione, ecco cosa è il “non finito calabrese”. Ho scelto questo titolo per caratterizzare la mia scrittura che, appunto, non ha uno stile chiaro: è un insieme di idee, mai concluse, che conservano in ognuna di esse, qualche cosa di non terminato, di non finito appunto.

 

Grazie Peppe. Prima di lasciarci ci sveli i  tuoi progetti per il 2011?

Sarò in giro con la mia tournée prima in Europa e poi, in Autunno in Argentina. In merito a questo paese, ricordo che ad Aprile sarà pubblicato il DVD del documentario “La vera storia di Tony Vilar”, sempre diretto da Giuseppe Gagliardi: un viaggio sulle tracce di un contadino calabrese emigrato in Sudamerica e lì diventato famoso cantando canzoni italiane. Un altro percorso interessante della Calabria nel mondo.

 

(a cura di Paola Cairo ed Elisa Cutullè)

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