CENTRI SOCIALI COME POSTO DI RICERCA DELL’IDENTITÀ

Un curioso miscuglio di utopia, progettualità, sperimentazione politica, linguaggi metropolitani, esperienze e vissuti anche molto diversi tra loro ed un immaginario mobile in continua metamorfosi, che contribuisce a fabbricare negli ultimi quindici anni quella realtà conosciuta come “Centri sociali autogestiti”, che si sono propagati come una macchia d’olio dal nord al sud dell’Italia, sia nelle grandi città che nei piccoli centri di famiglia. Un arcipelago di “spazi liberati”, strappati al degrado urbano: cinema, scuole, asili nido, case diroccate, chiese sconsacrate, diventano spazi in cui vivere le cose negate, cose negate che purtroppo in queste città contemporanee sono finanche troppe. Le città, che si trovano in una pseudofase avanzata della loro ristrutturazione, fase che invece permettere una maggiore vivibilità, nega in misura sempre crescente i servizi, gli spazi, il verde e tutti quegli spazi non asserviti ad una logica commerciale; in passato queste erano le realtà delle piazze di paese, e in taluni piccoli centri lo sono ancora: luogo di incontro, scambio, mercato.

Ma lo spazio non è l’unica cosa che al giorno d’oggi ci viene negato: anche il tempo, i ritmi, gli orari, la logica del lavoro: ci si sente addosso la città che va in sfacelo, l’impossibilità di un certo tipo di relazioni che sono base costituente del concetto di città contemporanea.

In fondo i centri sociali non cercano altro che essere questo: una diga che freni lo sfacelo, che si opponga alla dilagante desertificazione urbana e che dunque, proponga un’immagine diversa del vivere quotidiano. Il vivere quotidiano viene qui inteso nel suo senso più profondo di vita attiva: piena di musica, di immagini, di forme di comunicazione, lavoro artigianale contrapponendo allora all’individualismo, al quale spinge il ritmo frenetico dell’ottica del possesso, la solidarietà intesa come unica forma possibile del rapporto tra le persone. Mete che vengono esplicitate con linguaggi diversi, una diversità che può essere fatta di tante cose: quella dei gruppi emarginati, quella degli extracomunitari, di chi non riesce ad identificarsi nella logica dei vecchi partiti politici o nell’ideologia dei legislatori.

Un cerchio attraversato da una saetta: ecco il simbolo dei centri sociali. Lo ritroviamo tracciato sui muri, sui volantini, sui graffiti, sulle bandiere che si trovano nei pressi dei centri, sia in Italia, che in Germania, in Olanda e in Spagna. Il cerchio rappresenta la città, che viene recepita chiusa, limitante come una gabbia; la saetta rappresenta l’intelligenza e l’intraprendenza giovanile, il comportamento del singolo, anticonformista, dotato di una forte carica soggettiva che è capace di rompere le sbarre, o meglio rompere il cerchio, distruggere la gabbia, creare ed organizzare la nostra rabbia. Questa è la logica che sta dietro all’organizzare spazi di dimora sociale autogestiti o concerti con ingresso irrisorio: in un caso o nell’altro si tratta di ribaltare la condizione di soggezione in cui ci si trova: di diventare da semplici marionette dell’apparato burocratico legislativo, autori e registi dell’organizzazione della propria esistenza. È chiaro che una tale esperienza si crei e attecchisca maggiormente nei luoghi in cui è presente una maggiore emarginazione e marginalità, luoghi in cui “vivono” giovani costretti al lavoro nero o sommerso, tossici, disoccupati, laureati in attesa di una prima occupazione, giovani extracomunitari ed abitanti della periferia, che non vogliono passare il pomeriggio annoiandosi sul solito muretto e che ancora non conoscono l’alternativa della chat-line.

I centri rappresentano una denuncia del degrado e della speculazione edilizia e politica attuata ai margini della città: una risposta alla negazione continua di servizi, che propone comportamenti che utilizzano dei linguaggi diversi, per opporsi ad una società che vorrebbe tutti uguali e automi. Una specie di lotta radicata nell’ormai sparita tradizione delle case del popolo, che vi ha trasmesso le forme di aggregazione.

Il primo passo da compiere è quello di individuare quei luoghi abbandonati e fatiscenti; luoghi presenti in tutte le città, ma che spesso fuggono al nostro sguardo frettoloso e distratto; luoghi morti, che da tempo hanno perso ogni alito di vita. L’occupazione li porta per prima cosa a rivivere, ed ecco perché già il semplice gesto dell’occupare porta in nuce un concetto molto importante: un gesto di semi- illegalità che crea una frattura con l’ordine dato, e che rivendica ciò che non è mai stato concesso. L’idea di illegalità contiene l’idea di precarietà: il vivere sul filo del rasoio, senza sapere quando la polizia, rappresentante della forza precostituita e statale, per cui mortorio, deciderà di effettuare lo sgombro. Negli ultimi anni i centri hanno tentato di costruire un dialogo con le istituzioni in modo da avere la concessione di almeno quelle condizioni indispensabili per la sopravvivenza, anche se le istituzioni hanno però mantenuto sempre un atteggiamento ambiguo e poco costante.

Tracciare una “storiografia” dei centri sociali è quasi impossibile visto che ognuno ha la propria storia, strettamente relazionata all’ambiente in cui si è affermato: ognuno ha un rapporto ben preciso con il proprio quartiere, con le regole, con le occupazioni ecc.; “un centro sociale può dirsi veramente tale nel momento in cui tende a trasformare in centro sociale il territorio che lo circonda, quando contribuisce a ricreare circuiti di comunicazione sociale e di solidarietà, quando comincia a diventare tendenzialmente inutile, quando non sono più quattro mura, ma sono le strade, le piazze, i palcoscenici dei nostri percorsi di liberazione” diceva Alba Solaro in Posse italiane.

Uno scenario degradato in cui germogliano i centri è quello modellato da repressione, arresti licenziamenti, insomma di tutte le solidarietà sociali, che alla luce dell’imprenditorialità del singolo perdono ragion d’essere. Cambiano i volti delle città: lo spazio abitato si allarga, quasi in cerchi concentrici, respingendo ai margini i soggetti più deboli, convincendoli che quello spazio grigio e triste è in realtà un centro polifunzionale munito di tutti i servizi. Una carenza di vita, una carenza di spazi che porta alla creazione di mondi immaginari, dei quali i primi sono quelli evocati dal mondo dell’eroina. E per sfuggire al grande drago dell’eroina alcuni giovani decidono a Milano, Roma, Genova, Torino, Napoli e altre città, di creare delle zone franche, in cui poter riassumere il contenuto delle proprie esistenze: i centri sociali occupati, che comunicano con i giovani, che dimostrano di essere in grado di comunicare con i giovani che provengono da una situazione di disagio. In questi centri sociali, ricorda Goffredo Fofi, si ritrovano soggetti provenienti da esperienze a da mondi diversi. “Qualche sessantottino ingrigito, un po’ di ’77 versante autonomo, molta emarginazione recente, sottoproletariato ed insicura piccola borghesia […] ci sono anche giovani bene attratti dalla musica”. Ed è proprio con il linguaggio della musica che si risponde al collasso del linguaggio della politica. Un linguaggio musicale che spiazza, che costringe ad una presa di coscienza ed a una rinuncia dello stato di catalessi, in cui imperversava il rock, considerato il mezzo privilegiato per esprimere le ansie ed i desideri dei giovani.

Sono e devono essere situazioni, quelle musicali, in cui si può interagire tutti, situazioni in cui il messaggio che viene trasmesso con il simbolo della musica è sicuramente positivo, perché diventa importante, potente, o come lo definiranno i musicisti dei centri “alla parola verrà dato il potere”. La politica della quotidianità mista all’educazione e all’intrattenimento, concepita ed attuata come situazione di resitenza alla massificazione urbana. È nei centri sociali che nasce il rap e non a caso si profetizzerà, già dalla sua nascita, che questo sarà destinato a soppiantare la canzone d’autore contemporanea; ed anche quando non sarà più un fenomeno da prima pagina ed una semplice fenomeno di costume, perché il messaggio contenuto nelle canzoni è prettamente determinante. Con l’hip hop italiano, si ribalta inoltre la situazione di assistenzialismo, come se le culture giovanili fossero esclusivamente una questione imprenditoriale, o ancora peggio, istituzionale. Alba Solaro ricorda che le posse con la loro apparizione sulla scena politica costituiscono “un affare di famiglia”, visto che il livello di autorganizzazione è davvero altissimo. Gli argomenti trattati sono davvero i più disparati, anche se l’età dei cantanti è estremamente contenuta, per cui l’elaborazione dei testi è ancora primitiva perché manca, per esempio della complessa arma dell’ironia che caratterizzava invece la generazione del ’77.

Notiamo come vengono riproposti i concetti di autogestione e di autoproduzione. L’autogestione in sé non ha colore e nemmeno un’ideologia: è semplicemente segno di una gestione diretta non basata su una struttura gerarchica . L’autogestione si presenta, di conseguenza, anche coma la prima forma di autoproduzione, come valorizzazione delle decisioni “orizzontali”. Ogni centro sociale è libero di interpretare come meglio crede il concetto di autogestione, anche se tutti sono coscienti che non esiste una perfetta orizzontalità decisionale, visto che anche nei centri ci sono determinati gruppi egemoni, suddividendo tra il nucleo organizzativo e quello dei partecipanti, a cui far pagare, per esempio, il biglietto d’ingresso ad un concerto. Del resto la musica veramente gratis è una mera illusione: ci sono sempre costi da sostenere e la dignità stessa del lavoro dei gruppi esige che essi vengano pagati.

Il centro sembra allora voler proporre un mondo con delle regole, che spesso non è in grado di rispettare, quasi volesse imitare una società, scimmiottandola ma riproponendola. Una sorta di realtà virtuale sarebbe allora forse l’unica soluzione possibile. Ma che cosa c’entra il mondo cyber con quello dei centri sociali? Proprio il termine cyber è la chiave d’accesso per definire una serie di operazioni di comunicazioni che nascono dai centri sociali e da realtà che sono più o meno ad esse collegate . Anche perché certe questioni nate o analizzate in fieri all’interno di questi spazi sono poi al centro di altre ricerche che creano dei punti di contatto con i centri sociali stessi. Perché, allora, proprio cyber? Perché le avventure in questo mondo cibernetico si svolgono nelle modificazioni sul copro umano, modificazioni che sono state rese possibili dalla tecnologia, in particolare per quanto riguarda le connessioni fra uomo e computer che aprono nuovi “spazi”: spazi virtuali, costruiti da un complessissimo intreccio ci collegamenti all’interno dei quali la mente umana può vagare ricostruendo un’esperienza direttamente fisica, tramite stimulatori . Questa visione non è del tutto scollegata dall’attualità, perché noi stessi navighiamo in collegamenti che, pur mortificando la nostra esperienza fisica, permettono senza dubbio una prassi diversa da quella abituale. Carlo Branzaglia ricorda come questa rete sia apparsa importante ai centri sociali perché dava la possibilità di usufruire di una rete comunicativa diversa da quella messa a disposizione de potere economico politico, in cui il fruitore non veniva mai direttamente interpellato. Delle situazioni sotterranee, quindi o anche underground , o, con il termine più desueto, alternative.

Di fronte questo tipo di cultura alternativo viene poi spontaneo chiedersi se siano soluzioni copiate dalla cultura statunitense, applicate scimmiottando il nostro contesto o se non siano delle pratiche autonome di ripresa del tessuto urbano.

Questo è il progetto, il sogno utopico: il centro sociale come luogo in cui si ricompongono tutti quei soggetti che la società ha diviso, separato e allontanato, bloccandone una qualsiasi forma di comunicazione. In realtà, la realizzazione di questi centri richiede molta attenzione per non risultare alla fine come un altro semplice progetto che ha portato alla creazione di nuovi piccoli ghetti, villaggi in cui ci si rifugia per comunicare solo con i propri simili e chiudere così un altro cerchio, attorno ad un’altra gabbia , aspettando una saetta che venga a liberarci.

 

 

Bibliografia

AAVV Posse Italiane Tosca, 1992

Fanzine e volantini dei centri sociali

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