Gli aspetto dell’ibrido

 

Alessandro Gatti e Samuele Strati firmano l’ultimo titolo della collana Semi per il futuro di Graphe.it: Figure del limite. Estetica dell’ibrido tra arte e filosofia. I due giovani studiosi umbri analizzano l’immagine dell’ibrido, del mostro dalla natura molteplice o indefinita, che accompagna da sempre la storia dell’uomo, le sue mitologie e le sue forme. Ne parliamo con loro.

 

Dove vengono tracciati i limiti tra cosa è umano e cosa non lo è?

Si tratta di un problema che ha dato a lungo da pensare, e la soluzione non è immediatamente accessibile. La nozione di specificità umana è delicata e sebbene venga spesso intesa come qualcosa di solido, di assodato (come fosse una premessa, e non invece una conclusione), è continuamente soggetta a ripensamenti. Per comprendere quanto la questione sia complessa basti pensare ai problemi che sorgono nel momento in cui l’uomo viene riconosciuto a tutti gli effetti come una creatura del mondo, quando cioè si pone il problema del confine. L’uomo costretto a prendere atto di avere dei “vicini” è costretto anche ad interrogarsi sui termini di questa vicinanza. In senso più ampio, il concetto di limite è fonte di disagio perché apre all’idea di uno spazio caotico, in cui il “passaggio” non è sempre perfettamente definito. Questo potrebbe essere uno dei senz’altro molteplici fattori che spiegano l’interesse verso il mostro, mitologico o teratologico.

 

Perché l’ibrido affascina?

La fascinazione dell’ibrido è sempre connessa ad un’immagine, ad una duplice forma. Nella sua essenza mostruosa, nel senso latino di monstrare, l’ibrido ammalia (è sufficiente pensare alla fortuna pittorica e scultorea che ebbero le metamorfosi di Ovidio nel XVI secolo). La mente dell’artista fornisce la chiave per svelare l’arcano: Francesco Moschino e Tiziano Vecellio, rispettivamente al museo fiorentino del Bargello e a quello londinese della National Gallery, rappresentano Atteone né nella forma umana né nella forma animale, bensì nella commistione tra le due. Il fascino consiste nella precarietà della sua identità, liminare tra due diverse condizioni. Tanto più nell’ibrido, in cui le morfologie richiamano nature diverse ma identificabili. Dal mostro siamo attratti e respinti, ne siamo interrogati, perché riscontriamo in esso elementi di continuità e altri di discontinuità.

 

Come si spiega l’evoluzione della società verso la perdita di un’identità chiara a vantaggio di un indefinito?

Vi sono alcune teorie, generalmente indicate con il termine “postumanesimo” (ma che al loro interno risultano molto diverse, con numerosi indirizzi e differenti punti focali) che si interrogano a vario titolo sul mostro, e specialmente sulla mostruosità intesa come possibilità. Il mostro diventa un termine di confronto che contribuisce a strutturare l’identità dei termini di dialogo. Il portato è vasto e negli intenti si estende all’intera società. Si badi che la mostruosità nelle correnti postumaniste è pensata in senso estremamente ampio, ben oltre, dunque, la visione tradizionale che lo confina nelle opposizioni buono/cattivo, morale/immorale, naturale/innaturale. Queste teorie, tuttavia, sebbene recentemente abbiano accelerato il proprio sviluppo e stiano diventando sempre più complesse, presentano notevoli ambiguità, che dovranno essere chiarite.

 

Come definiamo il mostruoso?

La definizione “classica” – e più semplice – della mostruosità vuole che questa sia da ricercare nel carattere di straordinarietà del mostro. Il mostro ha, in base al contesto e alla tradizione, differenti interpretazioni, molte delle quali di natura morale. Volendo generalizzare all’estremo, per iniziare, vi è l’opposizione, scontata, tra “buono” e “cattivo”. Per comune che sia pensare il mostro in qualità di antagonista, vi sono numerose altre letture, molte delle quali anche in Occidente, che interpretano il mostro in senso positivo, come saggio custode, ad esempio, o come accompagnatore o consigliere dell’eroe, come segno prodigioso, come oracolo, e così via. Tutte le letture, tuttavia, hanno in comune il riferirsi alla creatura mostruosa come ad un’eccezione del tutto particolare, un caso unico. Con altrettanta semplicità si può rintracciare nel mostro l’espressione del gioco sui confini cui accennavamo prima. Noi estendiamo, con le dovute precauzioni, la definizione anche all’animale: non solo perché molti animali appaiono effettivamente “mostruosi”, notevoli nelle loro forme e curiosi nell’aspetto, ma anche in virtù del loro carattere di alterità. Anche l’animale, come il mostro tradizionale, è “altro”.

 

Perché si parla di presenza/assenza della mostruosità?

Il mostro gioca con i confini, e non solo in senso morfologico. La letteratura e la storia dell’arte esprimono di continuo la marginalità della creatura mostruosa. In Kafka, Gregor Samsa, dopo la trasformazione, rimane nella sua stanza, a cui si accede per spiragli e con cautela. Nell’immaginario comune il mostro abita luoghi inaccessibili, oscuri. L’apparire è dunque, letteralmente, il presentarsi sulla scena (alla maniera, anche, di “mostri” reali, viventi, come certi insetti che mostrano al predatore i loro ocelli colorati), sia esso un apparire improvviso o annunciato. In quest’ultimo senso, un tema ricorrente nell’immaginario è l’ululato nella notte, lo stridio, o la “provenienza laterale” del mostro, la creatura che balza fuori dal lato della strada, ovvero la presenza che fa sì che il viaggio venga vissuto con timore. La scomparsa del mostro, la sua assenza, è altrettanto interessante, quantomeno per le conseguenze sul nostro modo di intendere la posizione delle cose nel mondo: il mostro, oltre ad essere un catalizzatore di attenzione, è in primo luogo una questione.

 

Elisa Cutullè

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