Tra i ballerini del workshop Bal moderne, anche Marioenrico D’Angelo. Lo abbiamo incontrato per voi dopo lo spettacolo. Ecco cosa ci ha raccontato.
Cosa c’è di diverso tra Bal Moderne e Physical introduction, i workshop che si sono tenuti in tarda primavera?
Physical Introductions era stato concepito più come un workshop per introdurre il pubblico allo spettacolo: noi abbiamo presentato e lavorato su dei pezzi dello spettacolo, parlato dello spettacolo in sé e di quello che la coreografia vuole dire. Il nostro focus, in quel caso, era, per esempio, spiegare il gioco tra i personaggi e le ombre e il messaggio che Maggie Donlon voleva comunicare. Riassumendo, potrei dire che nel primo caso si trattava più di analizzare un’opera. Questo, Bal Moderne, è molto più interattivo, che ha come scopo avvicinare tutti alla danza contemporanea, facendoli diventare protagonisti e cercando di trasmettere loro una parte della nostra passione.
Impressioni a caldo su Bal Moderne?
Una bella serata: divertente e interessante allo stesso tempo. Per noi ballerini è stato interessante perché abbiamo danzato con persone che non spendono tutta la loro giornata nella danza ma che, per un’ora e mezza danno il massimo e fanno solo quello.
Di questa serata conserverò il sorriso: è stato bello vedere persone interessate, alcune davvero molto giovani a interagire e ballare con persone canute, che non si stancavano mai. Forse mi aspettavo un po’ più di timore da parte dei partecipanti, ma, anche quello che c’era, è scomparso velocemente.
Mi ha colpito particolarmente che molti di loro, sebbene non si ricordassero i passi e non sapevano bene cosa fare, ero rilassati e si divertivano in quello che facevano. Mi hanno fatto ricordare il motivo per cui io inizia a danzare: perché mi piaceva farlo.
Quand’è che ti sei avvicinato alla danza?
Avevo fatto karate per 6 anni: mi affascinava il fatto di dover capire in pochissimo tempo chi si aveva di fronte e come prenderlo. Nella danza invece, mi affascina il continuo movimento e l’assenza di competizione: devi solo dimostrare quello che tu sei grado di dare e non c’è la pressione di dover vincere sulle altre persone.
Avevo 11 anni quando sono andato a vedere uno spettacolo di un’amica e quando l’ho vista esibirsi (era un pezzo hip hop su musiche di Michael Jackson) è scattato qualcosa in me che mi ha spinto a provare. Di certo, all’epoca, non avrei mai pensato che poi avrei fatto il ballerino. Quando ho iniziato, quello che mi interessava era di stare in una sala con le altre persone e di muovermi, poi, vedendo sempre più video su internet, e facendo sempre più workshop conoscendo nuovi stili, arriva il momento in cui vedi quella compagnia e capisci che la tua passione può diventare la tua professione.
Il primo sentimento provato nei confronti della danza classica non è stato proprio amore. Avevo 15 anni quando il mio insegnante di danza jazz mi fece capire che, se non avessi studiato danza classica, mi sarei limitato le possibilità di carriera. Così ho studiato per un anno intero quasi ed esclusivamente danza classica, cambiando scuola e insegnante.
La mia famiglia all’inizio, non capiva come volessi passare dal Karate alla danza, ma ben presto sono diventati orgogliosi di me, organizzando anche alcuni eventi. Loro amano il proprio lavoro e ci hanno trasmesso la capacità di essere in grado di vivere e realizzare i nostri sogni.
Cosa ti ha portato a Saabrücken, invece?
Ho ballato a Roma con lo Spellbound Contemporary Ballet, che a tutt’oggi stimo tantissimo, quando ho sentito il desiderio di scoprire nuovi mondi e di lavorare anche con altri coreografi, per capire quale fosse la direzione in cui muovermi. Lasciando la compagnia dopo 4 anni ho incominciato a fare diverse audizioni. Purtroppo il successo non è stato quello sperato all’inizio e per un annetto le cose non sono andate come volevo. Ma non mi sono lasciato abbattere da questo, anche se qua e là sorgevano dentro di me dei dubbi, e continuavo ad inseguire i miei sogni. So che puntavo in alto, ma sono convinto che bisogna farlo se si ha intenzione di realizzare i propri sogni. Francesco Vecchione, che conoscevo già, nel frattempo era già a Saarbrücken, e mi fece sapere che la compagnia stava cercando nuovi ballerini. Sono venuto a fare l’audizione e dopo 5 minuti Maggie Donlon mi ha offerto un contratto.
Non era per me, tuttavia, la prima volta in Germania perché con la Spellbound venivamo spesso in Germania per esibirci. Ero già abituato all’atmosfera tedesca e la città, per qualche modo mi è piaciuta. Io non parlo una parola di tedesco, ma trovo bello che tutti cercano di comunicare con me.
Anche l’integrazione con i ballerini e con il resto della compagnia è stato un processo naturale: è come il primo giorno di scuola in cui non consoci nessuno e, pochi giorni dopo, hai già il tuo giro di amici e il tuo clan.
Quali pezzi, interpretati a Saarbrücken, hanno rappresentato la maggiore sfida per te?
“Heroes” è stata una sfida a livello personale. A parte che è il pezzo della Donlon che mi sta più a cuore, avevo visto Jorge, il ballerino su cui Heroes era stato montato. Rifare la sua parte era una vera sfida perché bisognava flirtare con il pubblico e muoversi in tempi rapidissimi.
“Strokes” è stato molto difficile dal punto di vista tecnico, perché io non sono un ballerino classico e il pezzo, seppur molto scherzoso, richiedeva una grande tecnica.
“Shadows” infine è stato il primo pezzo in cui ballavo tanto ed ero molto più in esposizione, avendo avuto il ruolo di interpretare Kurt Kobain, uno dei tre protagonisti. Quando si interpreta qualcuno reale, che esistito e che ti piace pure, il tutto diventa ancora più complicato.
Cosa vuoi fare da grande?
Ancora non lo so bene. Vorrei fare il coreografo, ma non è così facile. Il mio secondo sogno è fare il fotografo. Sarebbe bello se potessi fare una delle due cose, ma sarebbe perfetto se potessi fare entrambe le cose: creare la coreografia e poi, dopo la prima passare al ruolo di fotografo per cogliere i diversi momenti.
Elisa Cutullè